In materia di repressione degli illeciti edilizi, deve considerarsi ormai consolidato il principio secondo cui l’ingiunzione di demolizione, in quanto atto dovuto in presenza della constatata realizzazione dell’opera edilizia senza titolo abilitativo o in totale difformità da esso, è in linea di principio sufficientemente motivata con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera, ma deve intendersi fatta salva l’ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso ed il protrarsi dell’inerzia dell’Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato; ipotesi questa in relazione alla quale la giurisprudenza ravvisa un onere di congrua motivazione che indichi, avuto riguardo anche all’entità ed alla tipologia dell’abuso, il pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato (tra le più recenti, cfr. T.A.R. Napoli sez. II 22/11/2013, n. 5317, Consiglio di Stato sez. V, 15/07/2013 n. 3847).
Con la sentenza n. 1016 del 4 marzo 2014, il Supremo Collegio amministrativo ha modo di meglio delineare il proprio convincimento, per evitare che sul punto – si legge nella pronuncia – residuino margini di incertezza od equivoci:
la abusività dell’opera, in se e per se legittima il successivo, conseguente provvedimento di rimozione dell’abuso.
Esso è, di regola, atto dovuto e prescinde dall’attuale possesso del bene e dalla coincidenza del proprietario con il realizzatore dell’abuso medesimo.
La abusività dell’opera è una connotazione di natura reale: “segue” l’immobile anche nei successivi trasferimenti del medesimo.
Diversamente opinando, sarebbe sufficiente l’alienazione dell’immobile abusivo, successivamente alla perpetrazione dell’abuso, per rendere frustranee le esigenze di tutela dell’ordinato sviluppo urbanistico, del “governo del territorio”, dell’ambiente etc., che sono sottese all’ordine di rimozione.
Si rammenta in proposito il costante e condivisibile orientamento di questo Consiglio di Stato, dal quale non si ravvisa in via generale motivo per discostarsi, secondo il quale le sanzioni in materia edilizia sono legittimamente adottate nei confronti dei proprietari attuali degli immobili, a prescindere dalla modalità con cui l’abuso è stato consumato (tra tante, C. Stato, V, 5.5.1998, n.278 Sez. IV n. 6554/2008).
In casi-limite, però, può pervenirsi a considerazioni parzialmente difformi. Ciò può avvenire in casi in cui sia pacifico: che l’acquirente ed attuale proprietario del manufatto, destinatario del provvedimento di rimozione non è responsabile dell’abuso; che l’alienazione non sia avvenuta al solo fine di eludere il successivo esercizio dei poteri repressivi; che tra la realizzazione dell’abuso, il successivo acquisto, e più ancora, l’esercizio da parte dell’autorità dei poteri repressivi sia intercorso un lasso temporale ampio.
(…) in simile evenienza, nel palese stato di buona fede del privato, l’amministrazione deve motivare in ordine alla sussistenza di sì rilevanti esigenze pubblicistiche, tali da far ritenere recessivo lo stato di buona fede dell’attuale proprietario dell’abuso.
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